Social network ante litteram, ecco perché tutti ascoltano ancora la radio
Non solo RadioMediaset. Pubblico attento e numeri in crescita
di Simona Voglino Levy 18 Marzo 2017 alle 06:00
Milano. La notizia è stata mercoledì alla presenza di Pier Silvio Berlusconi. Davanti a una platea soprattutto di giornalisti è stato annunciato che Mediaset s’è comprata pure le radio. E’ nata così Radiomediaset, dalla somma di 101, 105 e Virgin Radio più una partnership con Radio Montecarlo 1 e anche 2. Il polo, per nulla trascurabile, va a fare concorrenza spietata alla Rtl 102.5, di proprietà di Lorenzo Suraci il quale, oltre all’emittente più commerciale d’Italia, possiede anche Radio Zeta l’Italiana e la neonata emittente web Radiofreccia. Ci sono poi, la storica Radio Italia di Mario Volanti – figura quasi mitologica nell’ambiente – e RDS, col suo patron Eduardo Montefusco. E ancora, le emittenti del Gruppo L’Espresso, posseduto per lo più dall’Ingegner Carlo De Benedetti, of course (Deejay, Capital ed m2o) e quelle della Rai.
Le radio proliferano, dunque e – vive, vitali e vegete – spernacchiano le previsioni di chi ne aveva previsto funerale certo.
Ne abbiamo parlato con il professor Giorgio Simonelli, docente di Storia della radio e delle televisione all’Università Cattolica di Milano, nonché direttore del nascente Master “Fare radio” nel medesimo Ateneo. “La radio è di moda”, dice al Foglio Simonelli. Perché? “Dei media tradizionali è quello che si è integrato meglio con la digitalizzazione: non ha cercato di combatterla ma l’ha sfruttata a suo favore”. E poi, l’interazione: la radio è un social network ante litteram, in fondo. “I media non sono più luoghi nei quali uno parla e l’altro ascolta – prosegue il professore – e in questo la radio è attrezzata da sempre: il 70 per cento dei programmi tradizionali sono fatti di telefonate, di presenza degli ascoltatori”. Un altro elemento è quello che in sociologia chiamano l’interstizialità. “Mentre la tv combatte perché non sa più quali sono i tempi del suo consumo – basti pensare a uno spettatore che guarda una serie tv tutta la notte – la radio li ha ben chiari”, spiega ancora Simonelli. “Il mattino presto, ad esempio, c’è una fascia molto ampia di pubblico. Lo stesso vale per quella chiamata dai radiofonici ‘drive time’, dalle 18 alle 20, quando la gente rientra a casa.
Non parliamo più di grandi blocchi come possono essere la prima serata o la domenica pomeriggio che sono le vecchie fasce della società tradizionale, ma di interstizi appunto, della società contemporanea”. La radio ha poi capito, dopo anni in cui si era intestardita a passare solo musica, che la parola conta. Eccome. “C’è stata una rinascita considerevole del parlato: da radio Popolare a Radio 24, fino a Radio Maria o Radio Radicale”, spiega il professore. Senza contare, rispetto alla musica, che “anche nell’era digitale la radio rimane uno dei canali centrali di diffusione del pop: non l’hanno uccisa neanche gli mp3 o i social network”, fa notare Gianni Sibilla, direttore didattico del Master in Comunicazione musicale alla Cattolica.
Infine, bisogna considerare che gli anni a cavallo del secolo sono stati di guerra e una radio in situazioni di conflitto si trova più facilmente di altri media: “Soprattutto le guerre balcaniche hanno segnato un rilancio del mezzo radiofonico”, ci racconta Simonelli. Infine “ci sono quelle che io chiamo ‘epifanie’: le radio hanno deciso di manifestarsi, hanno cominciato a organizzare festival e incontri perché si è creato un legame tra utente ed emittente che gli altri media non hanno. Le persone dicono ‘la mia radio’.
Nessuno dice ‘la mia televisione’, tranne Cairo e Berlusconi”, scherza il professore, c’entrando però il punto. “Io posso ascoltare Radio Deejay stando a Melbourne: la delocalizzazione dell’ascolto è fondamentale. Internet per la radio è stato una manna. Infatti gli investitori pubblicitari continuano a spendere”. Perché? “Mentre in tv l’ascolto è sempre più distratto, in radio il consumo è attento, quindi gli investimenti sono mirati a seconda del target. E’ quella che si chiama la logica reputazionale, più di quella quantitativa, che porta a una fruizione pubblicitaria efficace”. I numeri confermano quanto detto da Simonelli : il 2016 ha confermato l’andamento positivo degli investimenti pubblicitari nel settore. Dati Nielsen alla mano, la crescita di dicembre (+15 per cento) ha portato la racconta complessiva dell’anno passato a +2,3 per cento, pari a oltre 384 milioni. “Ci sono due cose su cui non bisogna mai fare pronostici – conclude – il calcio e lo sviluppo dei media”.
Fonte: Il Foglio